Sandro Consolato
Papa Leone XIII aprì il solenne Giubileo
che doveva segnare il passaggio di secolo, dall’Otto al Novecento, il 24
dicembre del 1899; chiuse quindi la Porta Santa un anno dopo, il 24 dicembre
del 1900. L’evento ispirò a Giovanni Pascoli uno dei suoi INNI, intitolato LA
PORTA SANTA, pubblicato sul “Marzocco” il 6 gennaio 1900. Questo testo rientra
tra quelli di Pascoli in cui sono presenti il “tema cosmico” ed un senso indefinito
di angoscia collettiva, lo stesso che noi ancor più forte avvertiamo al termine
di questo quindicesimo anno del nuovo millennio in cui, tra guerre e migrazioni
di popoli, si apre un nuovo Giubileo straordinario, voluto da un Pontefice che
si è annunciato come “venuto dalla fine del mondo”. Giustamente Arnaldo
Colasanti, curatore dell’edizione Newton Compton di “Tutte le poesie”, per “La
Porta Santa” parla di “Poesia di grande fascino”, in cui si affaccia “il dubbio
assurdo di un’apocalisse vicina”. Patrizia Paradisi, nel suo studio presente in
rete su “La ricerca
dell’Assoluto nella letteratura: Giovanni Pascoli”, osserva: “Pascoli
stravolge il significato religioso del rito, immaginando che il popolo che vi
assiste si senta in qualche modo escluso, tenuto fuori, dalla realtà oltre la
porta, la Vita Eterna promessa da Dio e dalla religione, e allora invoca il
Papa perché non chiuda questa porta, e lasci che il popolo dei fedeli possa
vedere quello che c’è di là”. Forse potremmo leggere questo inno pascoliano
anche come un monito a contemplare certi eventi come eventi di portata
universale, al di là della nostra appartenenza religiosa, l’apertura e la
chiusura della Porta Santa essendo uno di quei gesti sacri che vengono da tempi
antichi ma si coniugano con speranze e paure connesse sia allo stesso esistere
umano sia al vivere in un determinato tempo. Ed ora, non ci resta che leggere
il testo.
Uomo, che quando fievole / mormori, il mondo
t’ode, / pallido eroe, custode / dell’alto atrio di Dio;
leva la man dall’opera, / o immortalmente
stanco! / Scingi il grembiul tuo bianco, / mite schiavo di Dio: / la Porta
ancor vaneggi! / Vogliono ancor, le greggi / meste, passar di là.
O nostro primogenito, / puro tra i bissi
puri, / le pietre che tu muri / con la gracile mano, / nel sepolcreto sembrano
/ chiudere i tuoi fratelli / tutti; con tre suggelli, / tutto il genere umano.
Solo la bianca Morte / chiude così le porte,
/ che non riaprirà!
Oh! le tue mani tremano! / Dove sarai tu,
quando / un secol nuovo, orando, / toglierà le tre pietre?
Dove anche noi. Le candide / culle ch’or
vanno e stanno / tra un canto pio, saranno / tombe immobili e tetre.
Avanti quella Porta / chiusa non c’è che
morta / gente; un’ombrìa che va. /
O vecchio, è vecchio, al nascere, / del suo
morir futuro / anche il bambino, puro / là tra i puri suoi bissi.
Tutti i fratelli tremano / seguendo te che
tremi, / come su gli orli estremi / d’invisibili abissi.
Vecchio che in noi t’immilli, / lasciaci udir
gli squilli / dell’immortalità!
Di là, di là, risuonano / chiare le argentee
trombe / che spezzano le tombe / d’inconcusso granito!
Di là, di là, risuonano / canti or soavi or gravi; / ché c’è di là, con gli avi, / qualche bimbo
smarrito!
Tutto il di noi che vive / è ciò che a noi
sorvive: / tutto è per noi di là!
Non ci lasciar nell’atrio / del viver nostro,
avanti / la Porta chiusa, erranti / come vane parole;
ad aspettar che l’ultima / gelida e fosca
aurora / chiuda alle genti ancora / la gran porta del Sole;
quando la Terra nera / girerà vuota, e ch’era
/ Terra, s’ignorerà.
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