Articolo pubblicato sul quotidiano "Il Garantista" giovedì 3 luglio
Luciano Lanna
Anche quest'anno,
come ormai si fa dal 1997, è stato assegnato il Premio internazionale Alex
Langer, con cui non solo si intende onorare e tenere vivo il ricordo di un
intellettuale e un uomo politico
scomparso prematuramente ma nel contempo viene presentato all’opinione pubblica
il lavoro di persone anche sconosciute che – in piena sintonia con la visione
langeriana – attraverso “scelte coraggiose, indipendenza di pensiero, forte
radicamento sociale sono capaci di illuminare situazioni emblematiche e strade
innovative”.
Poco prima di congedarsi dall’esistenza, cosa che accadde il 3 luglio 1995, Alex aveva avuto modo di scrivere: “Riteniamo che sia tempo di affrontare anche dal basso la costruzione di una nuova fratellanza euro-mediterranea, e di accompagnare criticamente ed attivamente il processo che si svolge al livello delle istituzioni e dei governi…”. Un approccio alto alla politica che sembra davvero lontano in tempi di populismi demagogici e euroscetticismi egoisti e a buon mercato. Ma era un approccio maturato nel corso di tutta la sua vita. Nato a Vipiteno nel 1946 da un viennese di origine ebraica e da una madre altoatesina italiana e cattolica, Alex aveva sviluppato da subito robusti anticorpi contro ogni gabbia identitaria, tanto da sottrarsi all’obbligo di indicare una appartenenza al momento del censimento del 1991, scelta che gli precluse la strada alla candidatura che lo avrebbe potuto portare, con ragionevole possibilità, a diventare sindaco di Bolzano. E questa necessità dell’apertura, della contaminazione libertaria, del superamento dei recinti e delle gabbie, fu la vera costante nell’azione politica e culturale di Alex, e lo portò a essere sempre attivo nel tentativo di creare “ponti” anche nel momento in cui il disgregarsi della Jugoslavia si condensava drammaticamente nelle recrudescenze nazionaliste delle popolazioni balcaniche. Fu del resto in base a questa stessa sensibilità che a un certo punto prese radicalmente le distanze dalla visione identitaria e quasi etnica della politica che aveva caratterizzato gli anni ’70 e che riuscì a mettere in atto incursioni e attraversamenti nei campi contrapposti, forse impensabili ancora ai nostri giorni. Cattolico autodidatta, come amava definirsi, europeo con molte patrie, intellettuale che parlava cinque lingue e aveva cento vite, non smetteva mai di invitare i suoi interlocutori a “costruire ponti”.
Poco prima di congedarsi dall’esistenza, cosa che accadde il 3 luglio 1995, Alex aveva avuto modo di scrivere: “Riteniamo che sia tempo di affrontare anche dal basso la costruzione di una nuova fratellanza euro-mediterranea, e di accompagnare criticamente ed attivamente il processo che si svolge al livello delle istituzioni e dei governi…”. Un approccio alto alla politica che sembra davvero lontano in tempi di populismi demagogici e euroscetticismi egoisti e a buon mercato. Ma era un approccio maturato nel corso di tutta la sua vita. Nato a Vipiteno nel 1946 da un viennese di origine ebraica e da una madre altoatesina italiana e cattolica, Alex aveva sviluppato da subito robusti anticorpi contro ogni gabbia identitaria, tanto da sottrarsi all’obbligo di indicare una appartenenza al momento del censimento del 1991, scelta che gli precluse la strada alla candidatura che lo avrebbe potuto portare, con ragionevole possibilità, a diventare sindaco di Bolzano. E questa necessità dell’apertura, della contaminazione libertaria, del superamento dei recinti e delle gabbie, fu la vera costante nell’azione politica e culturale di Alex, e lo portò a essere sempre attivo nel tentativo di creare “ponti” anche nel momento in cui il disgregarsi della Jugoslavia si condensava drammaticamente nelle recrudescenze nazionaliste delle popolazioni balcaniche. Fu del resto in base a questa stessa sensibilità che a un certo punto prese radicalmente le distanze dalla visione identitaria e quasi etnica della politica che aveva caratterizzato gli anni ’70 e che riuscì a mettere in atto incursioni e attraversamenti nei campi contrapposti, forse impensabili ancora ai nostri giorni. Cattolico autodidatta, come amava definirsi, europeo con molte patrie, intellettuale che parlava cinque lingue e aveva cento vite, non smetteva mai di invitare i suoi interlocutori a “costruire ponti”.
Come quando, nel 1985, dopo
aver fondato le prime liste dei Verdi in Italia, si domandò pubblicamente:
“Quanto sono verdi i conservatori, quanto conservatori i verdi?”. Tema a cui,
più tardi, dedicherà un convegno, o come quando, nel 1987, firmerà un documento
a sostegno a quello redatto dall’allora cardinale Joseph Ratzinger contro la
ricerca sulle modificazioni genetiche (che provocò reazioni risentite
all’interno della sinistra), arrivando a esprimere “soddisfazione per
l’Istruzione vaticana sulla bio-etica, in quanto rifiuta ogni forma di
manipolazione genetica (perché di questa si parla!) e riafferma il primato
dell’etica sulle scienze e le sue applicazioni”.
“Cara Rossanda, e se
Ratzinger avesse ragione?”, scriverà proprio Alex Langer sul quotidiano
comunista “il manifesto”. D’altronde, a lui che nel 1985 scelse di partecipare
a una marcia per l’ambiente e contro il nucleare insieme ai francescani di
Assisi, era chiaro che i Verdi, se si organizzavano come forza politica, non
dovevano essere visti né pensarsi “come naturale e scontano prolungamento delle
tradizionali battaglie e dei tradizionali schieramenti della sinistra, ma che
piuttosto un polo di aggregazione, di ispirazione ideale e di iniziativa
sostanzialmente trasversale rispetto alle polarizzazione consolidate”.
Formatosi nel clima del miglior ’68 libertario e abbeveratosi
agli scritti di don Milani e Ivan Illich, Alex fu tra i fondatori di Lotta
continua prima e fu l’ultimo direttore a firmare il giornale omonimo, negli
stessi anni in cui il suo lavoro vero era insegnare filosofia in una scuola
periferica di Roma, il XXIII Liceo scientifico, a fianco di quella via Acca
Larenzia teatro della strage del 7 gennaio 1978, in cui la morte di tre
giovanissimi missini provocò anche un processo di ripensamento in certi
ambienti della estrema. E ci piace pensare che il professor Langer, che nel suo
liceo era il più amato dagli studenti, anche da quelli cosiddetti di destra,
possa aver contribuito a questo…
Del resto, più avanti negli anni, quando nella seconda metà
degli Ottanta si riaprì il processo – e il dibattito a sinistra – sul caso
Ramelli, altro giovane missino che era stato massacrato a Milano nel 1975 a
colpi di chiave inglese, Langer insieme al suo amico Fiorello Cortiana
accettarono di partecipare a un dibattito pubblico organizzato a Milano dal
Fronte della Gioventù. Più avanti non ebbe problemi a partecipare attivamente a
un convegno di quella che allora si chiamava la Nuova Destra. Non solo:
nell’imminenza delle elezioni europee del 1989 propose a Mario Tonin,
professore di fisica a Padova e appartenente a una nota famiglia veneziana di
destra, di candidarsi nella testa della lista dei Verdi per il Parlamento di
Strasburgo. Alex sottolineava sempre l’importanza di suscitare mediatori,
costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. Occorrono,
diceva, “traditori della compattezza etnica, non transfughi”, pensando a nuove
sintesi adeguate a tempi nuovi.
Tanto è vero che già all’inizio degli anni ’90 Langer cominciò a invocare lo scioglimento dei Verdi per determinare nuove sintesi in un processo coraggioso di “solve et coagula”, provocando più che altro la derisione dei suoi colleghi politici, non solo nell’europarlamento. Di quanto invece ci sarebbe bisogno ancora oggi di un Langer lo documenta un suo scritto del 1994, dove a differenza di quasi tutta la sinistra intellettuale, lui annotava coraggiosamente: “Berlusconi ha fatto venire allo scoperto una maggioranza che non ne può più di catastrofi avvenute o annunciate, e che vuole almeno un’iniezione di ottimismo per andare avanti”. E concludeva: “C’è spazio fra Savonarola e Berlusconi, purché si attivino le energie e le risorse che si situano tra il catastrofismo lamentoso e il sorriso prestampato e rassicurante del direttore dell’orchestrina del Titanic”. Un monito su cui si può, e si deve, ancora lavorare.
Tanto è vero che già all’inizio degli anni ’90 Langer cominciò a invocare lo scioglimento dei Verdi per determinare nuove sintesi in un processo coraggioso di “solve et coagula”, provocando più che altro la derisione dei suoi colleghi politici, non solo nell’europarlamento. Di quanto invece ci sarebbe bisogno ancora oggi di un Langer lo documenta un suo scritto del 1994, dove a differenza di quasi tutta la sinistra intellettuale, lui annotava coraggiosamente: “Berlusconi ha fatto venire allo scoperto una maggioranza che non ne può più di catastrofi avvenute o annunciate, e che vuole almeno un’iniezione di ottimismo per andare avanti”. E concludeva: “C’è spazio fra Savonarola e Berlusconi, purché si attivino le energie e le risorse che si situano tra il catastrofismo lamentoso e il sorriso prestampato e rassicurante del direttore dell’orchestrina del Titanic”. Un monito su cui si può, e si deve, ancora lavorare.
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