articolo pubblicato sul quotidiano il Garantista martedì 29 luglio
Luciano Lanna
Forse non è un caso che in
giorni in cui tragicamente si parla di bambini e di guerra dal cielo ricorrano
i settant’anni della morte del poeta che, caduto in combattimento sul suo
aereo, della sua stessa infanzia aveva fatto la sua patria. Parliamo di Antoine
de Saint-Exupéry, più noto come Saint-Ex. Un pioniere dell’aviazione, un
giornalista, uno scrittore, un polemista di rango, a modo suo anche un
filosofo. Ma che nell’immaginario resta soprattutto l’autore de Il Piccolo Principe. Un libro di quelli
che da subito s’imposero con un successo irresistibile, fulmineo e
imprevedibile. Un libro quasi magico, di quelli che incarnano al meglio lo
spirito del tempo e che vengono consultati come oracoli. Al cuore del loro
successo, un fattore di mistero, una complicità che trasforma da subito l’autore
in uno di noi. Come nel caso de Il
Piccolo Principe che, pubblicato a New York alla fine del 1943 era già un best seller internazionale quel 31
luglio 1944 quando Saint-Ex fu dato per
disperso dopo essere partito in missione con l’intento di sorvolare la regione
di Grenoble-Annecy. Perché in fondo quel romanzo illustrato, una fiaba vera e
propria, non era altro che un racconto autobiografico.
Come il Narratore della
storia, anche Saint Exupéry era infatti pilota di professione. Era stato uno
dei pionieri del volo e da civile aveva lavorato per l’Aeropostale, tra i
primissimi a trasportare per via aerea le lettere delle persone. E aveva realmente
avuto una grave avaria in pieno deserto del Sahara nel 1935, tanto che fu
ritrovato e salvato miracolosamente dagli indigeni quando era pressoché in
stato di morte. Lo stesso bambino che, nel racconto, gli si presenta nel
deserto è in fondo il se stesso piccolo, il fanciullino ch’è in ognuno di noi, la
parte che come molti poeti e scrittori anche lui ebbe la fortuna di riscoprire
dal pianeta della sua infanzia, la sua vera patria.
Quando il Piccolo Principe,
il bambino del romanzo, a distanza di un anno dal suo arrivo sulla terra,
decide che è arrivato il momento si fa mordere dal suo amico serpente.
Attenzione, non si dà la morte, ma ritorna nella sua stella… Ed effettivamente
quel 31 luglio 1944 anche il pilota-poeta Saint-Ex farà forse lo stesso. A 44
anni sparirà nel nulla, sorvolando la Baia degli Angeli al largo di
Saint-Raphael. Distrazione in volo, incidente fatale, abbattuto dai nemici:
tutte ipotesi possibili, ma irrilevanti rispetto alla leggenda che da subito
s’impose. Forse, come scrisse Nico Orengo, “continuare a vivere senza volare,
questo gli volevano imporre ritenendo che a 44 anni un pilota è già vecchio,
era troppo triste…”.
Come è stato scritto,
Saint-Exupéry può d’altronde rappresentare l’altra metà del pensiero del
Novecento, quella irrisolta, mai arrivata a compiuta espressione. Perché se ciò
che ha contraddistinto la parte preminente della cultura del secolo scorso è
stata la “volontà di potenza” – quella vocazione che si è incarnata nella
mobilitazione delle masse, nei totalitarismi, nella spersonalizzazione delle
società di massa, Saint-Ex rappresentò il bisogno dell’esatto contrario. La sua
stessa vita è stata un’esperienza tutta personale, tutta interiore, vissuta
senza alcuna volontà di trasformare e plasmare il mondo, senza addirittura interferire
con gli altri: il rispetto della persona prima di tutto. Pur non risparmiandosi
mai – perché comunque in quella vita lieve ci mise tutto se stesso, anche il
suo corpo – non rientrava nei suoi orizzonti
l’aspirazione, diffusa nei suoi anni, che cambiare la realtà che gli era
stata data. Non cercava soluzioni: “Nella vita non ci sono soluzioni. Ci sono
delle forze in cammino: bisogna crearle, le soluzioni vengono dopo…”. Mentre
l’eroe apollineo novecentesco si prefigge quasi sempre un obiettivo esteriore e
ideologico, di civiltà come s’è detto, e piega il contesto in funzione di esso,
Saint-Exupéry ci dice che c’è solo il libero movimento delle persone, da
sollecitare, da favorire e da condividere, non un telos esterno verso il quale indirizzare l’azione dei singoli.
Anche per questo, al di là
di tutti i suoi bei libri – Corriere del
sud, Pilota di guerra, Terra degli uomini, Volo di notte, Cittadella
– il suo nome resta indissolubilmente legato alla fiaba de Il Piccolo Principe. Lo ha
annotato il poeta e scrittore Giuseppe Conte: quel romanzo appartiene a un
genere di letteratura – che comprende anche testi come Siddharta di Hermann Hesse, Il
Signore degli Anelli di Tolkien o Il
gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach – che con la semplicità della
fiaba riesce a evocare percorsi simbolici “destinati a essere amati e
saccheggiati da lettori di tutti i tipi, anche impensabili”. Come accade, e non
è un caso, quando Il Piccolo Principe
viene abbondantemente “citato da uomini politici, anche di diversi
schieramenti”. La fiaba-metafora di Saint-Ex va così riconsegnata, anche, alla
sua energia di invenzione fantastica che punta sulla demistificazione totale degli
stereotipi politici. Sugli asteroidi che visita, infatti, il protagonista-bambino
del romanzo incontra vari personaggi, i quali incarnano chi in un modo chi
nell’altro le figure del potere, della ricchezza, del sapere, ma li trova tutte
inadeguate e prive di vera autorevolezza.
Il messaggio finale di
Saint-Ex? Gli stereotipi della volontà di potenza finiscono – o finiranno –
tutti per sgretolarsi. È come se uno sguardo nuovo, quello dell’infanzia,
ridefinisca tutto e si possa finalmente ripartire dall’essenziale, dalla
condizione reale delle persone e dalla loro libertà. “Non posso tollerare –
scriveva in una delle sue ultime lettere Saint-Exupéry – l’idea di tutta una
generazione di bambini riversata nel ventre del Moloch”. Pensava agli esiti
devastanti di quella guerra in cui era coinvolto fino al suo ultimo giorno. Confermando, così, tutte le ragioni dell’altra
parte del Novecento che lui incarnava. “Di dove sono io?”, si chiedeva sempre
Saint-Ex. E rispondeva: “Sono della mia infanzia, sono della mia infanzia come
di un paese”.