martedì 29 luglio 2014

Saint-Exupéry, la sua patria era l'infanzia


articolo pubblicato sul quotidiano il Garantista martedì 29 luglio

Luciano Lanna

Forse non è un caso che in giorni in cui tragicamente si parla di bambini e di guerra dal cielo ricorrano i settant’anni della morte del poeta che, caduto in combattimento sul suo aereo, della sua stessa infanzia aveva fatto la sua patria. Parliamo di Antoine de Saint-Exupéry, più noto come Saint-Ex. Un pioniere dell’aviazione, un giornalista, uno scrittore, un polemista di rango, a modo suo anche un filosofo. Ma che nell’immaginario resta soprattutto l’autore de Il Piccolo Principe. Un libro di quelli che da subito s’imposero con un successo irresistibile, fulmineo e imprevedibile. Un libro quasi magico, di quelli che incarnano al meglio lo spirito del tempo e che vengono consultati come oracoli. Al cuore del loro successo, un fattore di mistero, una complicità che trasforma da subito l’autore in uno di noi. Come nel caso de Il Piccolo Principe che, pubblicato a New York alla fine del 1943 era già un best seller internazionale quel 31 luglio 1944 quando Saint-Ex  fu dato per disperso dopo essere partito in missione con l’intento di sorvolare la regione di Grenoble-Annecy. Perché in fondo quel romanzo illustrato, una fiaba vera e propria, non era altro che un racconto autobiografico.
Come il Narratore della storia, anche Saint Exupéry era infatti pilota di professione. Era stato uno dei pionieri del volo e da civile aveva lavorato per l’Aeropostale, tra i primissimi a trasportare per via aerea le lettere delle persone. E aveva realmente avuto una grave avaria in pieno deserto del Sahara nel 1935, tanto che fu ritrovato e salvato miracolosamente dagli indigeni quando era pressoché in stato di morte. Lo stesso bambino che, nel racconto, gli si presenta nel deserto è in fondo il se stesso piccolo, il fanciullino ch’è in ognuno di noi, la parte che come molti poeti e scrittori anche lui ebbe la fortuna di riscoprire dal pianeta della sua infanzia, la sua vera patria.
Quando il Piccolo Principe, il bambino del romanzo, a distanza di un anno dal suo arrivo sulla terra, decide che è arrivato il momento si fa mordere dal suo amico serpente. Attenzione, non si dà la morte, ma ritorna nella sua stella… Ed effettivamente quel 31 luglio 1944 anche il pilota-poeta Saint-Ex farà forse lo stesso. A 44 anni sparirà nel nulla, sorvolando la Baia degli Angeli al largo di Saint-Raphael. Distrazione in volo, incidente fatale, abbattuto dai nemici: tutte ipotesi possibili, ma irrilevanti rispetto alla leggenda che da subito s’impose. Forse, come scrisse Nico Orengo, “continuare a vivere senza volare, questo gli volevano imporre ritenendo che a 44 anni un pilota è già vecchio, era troppo triste…”.
Come è stato scritto, Saint-Exupéry può d’altronde rappresentare l’altra metà del pensiero del Novecento, quella irrisolta, mai arrivata a compiuta espressione. Perché se ciò che ha contraddistinto la parte preminente della cultura del secolo scorso è stata la “volontà di potenza” – quella vocazione che si è incarnata nella mobilitazione delle masse, nei totalitarismi, nella spersonalizzazione delle società di massa, Saint-Ex rappresentò il bisogno dell’esatto contrario. La sua stessa vita è stata un’esperienza tutta personale, tutta interiore, vissuta senza alcuna volontà di trasformare e plasmare il mondo, senza addirittura interferire con gli altri: il rispetto della persona prima di tutto. Pur non risparmiandosi mai – perché comunque in quella vita lieve ci mise tutto se stesso, anche il suo corpo – non rientrava nei suoi orizzonti  l’aspirazione, diffusa nei suoi anni, che cambiare la realtà che gli era stata data. Non cercava soluzioni: “Nella vita non ci sono soluzioni. Ci sono delle forze in cammino: bisogna crearle, le soluzioni vengono dopo…”. Mentre l’eroe apollineo novecentesco si prefigge quasi sempre un obiettivo esteriore e ideologico, di civiltà come s’è detto, e piega il contesto in funzione di esso, Saint-Exupéry ci dice che c’è solo il libero movimento delle persone, da sollecitare, da favorire e da condividere, non un telos esterno verso il quale indirizzare l’azione dei singoli.
Anche per questo, al di là di tutti i suoi bei libri – Corriere del sud, Pilota di guerra, Terra degli uomini, Volo di notte, Cittadella – il suo nome resta indissolubilmente legato alla fiaba de Il Piccolo Principe.  Lo ha annotato il poeta e scrittore Giuseppe Conte: quel romanzo appartiene a un genere di letteratura – che comprende anche testi come Siddharta di Hermann Hesse, Il Signore degli Anelli di Tolkien o Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach – che con la semplicità della fiaba riesce a evocare percorsi simbolici “destinati a essere amati e saccheggiati da lettori di tutti i tipi, anche impensabili”. Come accade, e non è un caso, quando Il Piccolo Principe viene abbondantemente “citato da uomini politici, anche di diversi schieramenti”. La fiaba-metafora di Saint-Ex va così riconsegnata, anche, alla sua energia di invenzione fantastica che punta sulla demistificazione totale degli stereotipi politici. Sugli asteroidi che visita, infatti, il protagonista-bambino del romanzo incontra vari personaggi, i quali incarnano chi in un modo chi nell’altro le figure del potere, della ricchezza, del sapere, ma li trova tutte inadeguate e prive di vera autorevolezza.

Il messaggio finale di Saint-Ex? Gli stereotipi della volontà di potenza finiscono – o finiranno – tutti per sgretolarsi. È come se uno sguardo nuovo, quello dell’infanzia, ridefinisca tutto e si possa finalmente ripartire dall’essenziale, dalla condizione reale delle persone e dalla loro libertà. “Non posso tollerare – scriveva in una delle sue ultime lettere Saint-Exupéry – l’idea di tutta una generazione di bambini riversata nel ventre del Moloch”. Pensava agli esiti devastanti di quella guerra in cui era coinvolto fino al suo ultimo giorno.  Confermando, così, tutte le ragioni dell’altra parte del Novecento che lui incarnava. “Di dove sono io?”, si chiedeva sempre Saint-Ex. E rispondeva: “Sono della mia infanzia, sono della mia infanzia come di un paese”. 

La storia del Secolo d'Italia. Quando arrivò l'annuncio che il fascismo era il "male assoluto"




Annalisa Terranova

Il rapporto tra un certo elettorato di destra e il fascismo è ancora irrisolto. Perché, se tu per mezzo secolo senti questo dovere di difesa a oltranza di un certo periodo alla fine non sei credibile come interprete storico. Sei un fideista. Come i carabinieri: fedele nei secoli. Questo spicchio di elettorato post-missino si va esaurendo ma non viene meno la tendenza antropologica di fondo che vi si manifesta: avere una propria età dell’oro da contrapporre alla miseria dei tempi presenti. Il fascismo, appunto. Tutto ciò è sicuramente marginale rispetto all’avanzare inesorabile della storia e al lavoro della memoria che ne consegue: io ho sempre pensato che la storicizzazione del fascismo l’hanno fatta gli storici e non certo Gianfranco Fini. Quella fatta dagli storici era inevitabile, quella fatta da Fini poteva essere fatta meglio. In ogni caso, vista dall’interno del Secolo d’Italia, assume una coloritura diversa, molto più banale, rispetto al significato che in genere viene attribuito a quegli “strappi”. La frase sul male assoluto, per esempio. Fu pronunciata nel 2003 se non ricordo male. Al Secolo era una ordinaria giornata di routine.  Il leader era in viaggio in Israele ma non aveva con sé un redattore del quotidiano di partito. Noi usavamo l’Ansa per scrivere i servizi su quel viaggio. E a un certo punto l’allora capo del servizio politico si accorge del guaio e strilla: “FINI FASCISMO MALE ASSOLUTO”. Era un flash d’agenzia. L’annuncio coglie tutti di sorpresa e tutti andiamo a cercare sul computer l’agenzia-choc. La troviamo. La leggiamo. Io provo a dire: aspettiamo il secondo lancio per capire bene che voleva dire. Il secondo lancio conferma. Voleva proprio dire quello, anche se la semplificazione giornalistica ci ha messo del suo (voleva dire cioè che se un’ideologia conduce allo sterminio di un popolo è il male assoluto). Fini aveva appena visitato lo Yad Vashem. Non una cosa da nulla. Si confrontava con una tragedia così profonda che forse non c’era modo di fare gli opportuni distinguo. La redazione rumoreggia. Risate sarcastiche accolgono quella valutazione. C’è pure chi vorrebbe avere l’ardire di ragionarci sopra. Flavia Perina, all’epoca caporedattore, richiama tutti all’ordine: “Ma dico, a Fiuggi non c’eravate? Non vi ricordate? Vi siete già dimenticati che tutti hanno alzato la manina per rivalutare l’antifascismo?”. Le proteste si spengono in un borbottìo di fondo. Il giorno dopo sul Secolo quella notizia non ci sarà. Mi ricordo di avere pensato: meno male che mio padre è morto. Mi ricordo che mi arrivò la telefonata di una collega di Repubblica, era Concita De Gregorio. Mi fa: “Mi hanno detto di parlare con te che sei una voce critica verso Fini…”. La cosa mi indispettisce: “Ma come – le rispondo – qua c’hanno tutti due o tre pennacchi a testa e devo parlare io? E che peso ha quello che ti dico io?”. E lei: “Ma tu sei d’accordo? Tu pensi che il fascismo sia il male assoluto?”. “Ma no, ma no che non sono d’accordo, ma guarda che non puoi fare un pezzo così, su chi è a favore di Fini e chi è contro, tutti sono contro ma non lo diranno mai”. “Tutti chi?”. “Tutti, tutti, questa fuoriuscita dal fascismo Fini la sta facendo in solitudine, è chiaro?”. “Sì ma voi che pensate del fascismo?” “Ma voi chi?” “Voi, voi di An”. “Non pensiamo niente. Fino al ’95 si poteva parlare benino del Duce, dopo il 95 si doveva dimenticare il Duce, ora se ne deve parlare male, ma non è una cosa seria dai…”. Di quella conversazione su Repubblica non uscì nulla. Come io le avevo detto, infatti, doveva parlare con un nome pesante, non con me che non contavo niente. Non trovò nessuno disposto a fare dichiarazioni.  
Poi ci fu la convention di Francesco Storace all’Hilton di Roma. Pienone. Rabbia. Io c’ero. E pensavo che sarebbe stata la volta buona per far nascere finalmente una corrente d’opposizione a Fini dentro An. Invece no, perché Storace e Alemanno erano troppo occupati a fare opposizione l’uno all’altro. Comunque al Secolo mi permisero di fare un risicato resoconto della manifestazione, tagliando ovviamente i passaggi più critici verso il leader di An. Mi ricordo che Il Riformista ironizzò su quel pezzo: al Secolo conoscono la libertà di stampa, scriveva all’epoca Il Riformista, e la esercitano per difendere il fascismo che quella libertà aveva soppresso.

Oggi, fuori dalla ricerca storiografica che continua ad approfondire aspetti interessanti e inediti del fascismo visto nella sua complessità di fenomeno storico, il Ventennio è divenuto puro merchandising che ha a Predappio il suo crocevia folkloristico. L’approccio superficiale della destra al fenomeno non è cambiato, anzi si è cristallizzato in quattro o cinque battute non esaltanti che Silvio Berlusconi ha dedicato al tema. Il cognome Mussolini è una specie di marchio (e non mi metto qui a parlare di chi su di esso ha costruito la propria fortuna politica). L’immagine di Mussolini attira l’attenzione quanto il sedere di Belen. Rispetto a tutto ciò la destra avrebbe il dovere di un approccio critico. Avrebbe dovuto avere la forza di costruire negli anni un solido punto di riferimento per lo studio del fascismo. Invece dopo le rimozioni forzate siamo arrivati agli auguri al Duce (a 131 anni dalla nascita) sul Secolo online. Il rischio è quello che tocchiamo con mano: tagliati fuori  dal dibattito serio sul fascismo, tagliati fuori dalla storia di quella che viene considerata la vera destra italiana (che comincia con Cavour e finisce con Monti) come dimostra l’ultimo libro di Antonio Polito che, interrogandosi sulla mancanza  della destra in Italia, evita proprio di citare Msi e An. La nostalgia per il fascismo è finita. Non è più spendibile neanche elettoralmente. Neanche i reduci ce l’hanno più. Ogni tanto sento al telefono Franco Grazioli, ex battaglione Lupo della Decima. Sta scrivendo le sue. Ci siamo sentiti per il 25 aprile. Lui ha detto: basta guardare indietro, basta con queste rievocazioni, era la nostra guerra non quella di chi è giovane oggi. Una cosa molto saggia. 

La storia del cinema contro i critici del "noioso è bello"



Luciano Lanna

Nel 1974 un brano musicale, Verde, dei fratelli Guido e Maurizio De Angelis, finì nella hit parade e divenne un motivetto ascoltato e fischiettato un po’ da tutti… Si trattava della colonna sonora di uno “sceneggiato” – le fiction o film televisivi si chiamavano allora così – diretto da Leandro Castellani, uno dei principali creatori dell’inchiesta storica televisiva, autore di programmi di testimonianze, di tv-movie e di cinema (tra i suoi tanti altri lavori ricordiamo Le cinque giornate di Milano, L'affare DreyfusOrfeo in paradisoIpotesi sulla scomparsa di un fisico atomico, Don Bosco…)
Castellani ha adesso pubblicato un suo curioso libro – Questo pazzo cinema. La storia dei cinema di 110 film con 11 fiction tv in appendice (Edizioni Eracle, pp. 76, euro 9,90) tutto in versi… Castellani s’improvvisa infatti poeta per raccontare con questa sua personale selezione la storia della Settima arte, rileggendola in maniera scanzonata e non conformista… “Una storia del cinema – annota il regista – faziosa, irriverente, che enfatizza il cinema popolare, quello che non delude quasi mai, e disprezza il cinema dei cattedratici e dei critici snob, per i quali ‘noioso è bello’…”. Non a caso, nel primo capitolo, dedicato a “quando il cinema non sapeva parlare”, Castellani dedica una delle sue poesie a La corazzata Potemkin di Sergej Eizenstein, e provocatoriamente conclude: “Ma poi Fantozzi l’ha condannata / disse: è pazzesca questa cagata!”.
Per capire l’ispirazione del libro, degli anni Trenta l’autore si sofferma su film come Tarzan l’uomo scimmia e Biancaneve e i sette nani di Walt Disney, l’indimenticabile Via col Vento, Ombre rosse e Il mago di Oz… Degli anni Quaranta ci si sofferma su Dumbo e Il segno di Zorro, Quarto potere e Casablanca, Quattro passi tra le nuvole e Ladri di biciclette. Dei Cinquanta Castellani ricorda Viale del tramonto e Rashomon, Quo vadis? e Un americano a Roma, Un uomo tranquillo e Cantando sotto la pioggia, Sabrina e A qualcuno piace caldo…Perfetta la sequenza dei Sessanta: La dolce vita e Psycho, Il sorpasso e 007-Licenza di uccidere, Mary Poppins e Tutti insieme appassionatamente, 2001-Odissea nello spazio e Easy Rider. Quindi gli incubi e gli eroi degli anni Settanta: Il padrino, Jesus Christ Superstar, Fantozzi, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Rocky, Guerre stellari, Superman, Alien, Dracula. Cosa resterà (del cinema) degli anni Ottanta, si chiede quindi il nostro? E risponde: Shining, Rambo, Il Marchese del Grillo, ET-L’extraterrestre, C’era una volta in America, Ritorno al futuro, Il cielo sopra Berlino, Don Bosco. Del cinema anni Novanta ci si sofferma su Dick Tracy, Thelma e Louise, Pulp fiction, Full Monty, Titanic… E finalmente si arriva ai film degli anni Duemila, su cui la scelta di Castellani va su alcuni titoli precisi: Il gladiatore, Moulin Rouge!, Harry Potter, Spider Man, The Passion, Gomorra, Il Divo, Avatar…
È un libro che consigliamo a tutti, anche perché condividiamo quasi in toto la scelta dei film fatta da Castellani – oltre a quelli che abbiamo citato nel liro ce ne sono, ovviamente, anche altri – che nel loro insieme possono costituire l’omaggio migliore al grande cinema. E vale la pena leggere il commento in versi che l’autore fa accompagnare a ogni scheda. Citiamo solo il finale: “Il tragico sorriso di Charlot / il volto cereo di Ridolini / il broncio infantile di Stanlio / il farneticare strampalato di Totò… / Che confine sottile / fra la risata e il pianto”. 

mercoledì 16 luglio 2014

Il monito di Pasolini: attenti al fascismo degli antifascisti


Articolo pubblicato sul quotidiano il Garantista mercoledì 16 luglio


Luciano Lanna

Quarant’anni fa, il 16 luglio 1974, Pier Paolo Pasolini scriveva sul Corriere della Sera una dei suoi editoriali che ancora oggi restano nell’immaginario continuando a farci interrogare sul cuore del “caso italiano”. Il tema era oggettivamente pasoliniano: “Il fascismo degli antifascisti”. E il ragionamento che il poeta vi svolgeva era la continuazione di quanto andava spiegando da oltre un mese, a cominciare dall’editoriale “Gli italiani non sono più quelli”, del 10 giugno, a quello su “Il potere senza volto”, del 27 giugno, sino alle note riflessioni sulla rivoluzione antropologica e l’omologazione in Italia, dell’11 luglio. Si tratta di alcuni degli articoli che verranno poi raccolti in un libro nel novembre 1975 nell’ultima opera pubblicata in vita da Pasolini: Scritti corsari.
In tutti quegli articoli l’autore denunciava il fatto che nessuno in Italia si mostrava in grado di comprendere quanto stava realmente accadendo: “Una mutazione della cultura italiana, che si allontana tanto dal fascismo che dal progressismo socialista”. In realtà, precisava Pasolini, era in atto un fenomeno devastante e inarrestabile di mutazione antropologica conseguente alla trasformazione del sistema di Potere: “L’omologazione culturale che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è ormai la stessa…”.
Sino al passaggio più importante: “Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili…”. E anche guardando ai giovani che in quel 1974 si chiamavano e venivano definiti “fascisti”, Pasolini spiegava che si trattava di una definizione puramente nominalistica e che portava fuori strada: “È inutile e retorico – concludeva – fingere di attribuire responsabilità a questi giovani e al loro fascismo nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono è la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei”.
Il problema, semmai, era il nuovo Potere, non ancora rappresentato simbolicamente e dovuto alla mutazione della classe dominante, il quale stava omologando la società italiana. Si trattava – annotava preoccupato Pasolini – di un una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre”. E la strategia della tensione ne era a suo avviso una spia significativa che ne svelava l’altra faccia della medaglia…
Pasolini insomma, in totale controtendenza rispetto agli altri intellettuali suoi contemporanei, invitava a cogliere e contrastare il volto disumano del nuovo potere piuttosto che a rimuovere il problema rispolverando un antifascismo fuori contesto e fuori tempo massimo. “E bisogna avere il coraggio – aggiungeva – di dire che anche Berlinguer e il Pci hanno dimostrato di non aver capito bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni”. Perché infatti, si domandava il poeta, rilanciare trent’anni dopo la fine della guerra e del fascismo un’offensiva antifascista (che oltretutto portava fuori strada) invece di aggredire dalle fondamenta il nuovo potere senza volto, magari con le sembianze di una società democratica e di massa, “il cui fine è riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo”? E in questo passaggio Pasolini aggiungeva un’autocritica inedita e importante: “In realtà – confessava – ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente. Non nascondiamocelo: tutti sapevano, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di  essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale… Ma nessuno ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla…”.
Chissà quanto si sarebbe scongiurato di quanto è avvenuto dopo – in termini di messa in moto dell’antifascismo militante, della conflittualità destra/sinistra e dello stesso spontaneismo armato successivo – se si fosse dato ascolto, allora, a Pasolini? Ma la storia non si fa con i “se” e quanto lui scriveva oggi vale soprattutto come controcanto a una vicenda ancora tutta da analizzare storiograficamente.

Importante, inoltre, il fatto che il succo dell’articolo del 16 luglio riguardasse il “silenzio” mediatico e politico sui vincitori del referendum del 13 maggio,  Marco Pannella e i radicali. Di fronte all’affermazione crescente di un potere a vocazione totalitaria – che si reggeva sul patto Dc-Pci-Confindustria-cultura consumista – i radicali apparivano a Pasolini come il solo fenomeno irriducibile ed eccedente. “Nessuno dei rappresentanti del potere – annotava – sia del governo che dell’opposizione, sembra neanche minimamente disposto a compromettersi con Pannella e i suoi. La volgarità del realismo politica sembra non poter trovare alcun punto di connessione col candore di Pannella, e quindi la possibilità di esorcizzare e inglobale il suo scandalo”. Il Partito Radicale e il suo leader Marco Pannella erano, spiegava il poeta, i reali vincitori del referendum sul divorzio del 12 maggio e proprio questo non gli veniva perdonato da nessuno. Ma, “anziché essere ricevuti e complimentati dal primo cittadino della Repubblica, in omaggio alla volontà del popolo italiano, volontà da essi prevista, Pannella e i suoi compagni – scriveva Pasolini – vengono ricusati come intoccabili. Invece che apparire come protagonisti sullo schermo della televisione, non gli si concede nemmeno un miserabile quarto d’ora di tribuna libera”. Antifascismo pretestuoso e fuori tempo massimo, da un lato, e censura della presenza radicale, dall’altro. Una domanda è inevitabile: quanto c’è, quarant’anni dopo, di continuità con quella logica del potere?

sabato 12 luglio 2014

Perché la prostituzione minorile è disgustosa. Dietro c'è il mercato del lolitismo come insegna il caso giapponese








Quello che segue è un brano di un interessante articolo apparso sull'ultimo numero della rivista Internazionale. Si intitola "L'impero delle lolite" e parla del mercato della pedopornografia in Giappone. E' scritto da una femminista, Minori Kitahara, famosa per essere stata la prima ad aprire un sex shop per sole donne. E' interessante riflettere sulla neutralità etica che il mercato impone allo sfruttamento sessuale dei minori. Un fenomeno che dovrebbe generare una reazione socialmente importante mentre in Italia un processo per prostituzione minorile viene equiparato a un caso di persecuzione politica e si difende l'autodeterminazione delle cosiddette "olgettine"... I giapponesi hanno una loro cultura e un  loro specifico che li rende diversi e distanti da noi, ma fino a che punto è il caso di sottovalutare l'uniformità cui tende il mercato globalizzato e l'indifferenza della politica rispetto a queste tendenze?





Minori Katahara

"Lavorando nel mondo dei sex toys da vent'anni cerco di rispettare le fantasie erotiche di ciascuno. Tuttavia, mi trovo senza parole di fronte alle dimensioni del mercato delle lolicon (contrazione di lolita complex, termine che indica sia l'attrazione sessuale per le minorenni sia i prodotti come anime e manga che su quella fanno leva) e alla sua espansione in Giappone. Il commercio dei giocattoli sessuali fattura ogni anno circa 30 miliardi di yen (216 milioni di euro). Il 70 per cento delle vendite è formato da accessori per la masturbazione maschile e, tra questi, gli oggetti del genere lolicon sono sempre più popolari. Sulle confezioni, per esempio, ci sono disegnate bambine con bavaglini o in mutande insieme a scritte come "sono tua" o "mettimelo dentro, papi". Le istruzioni del prodotto poi contengono frasi come "prova l'elasticità della pelle di una bambina", oppure "è vergine e si allarga a seconda delle tue dimensioni". Nei sex shop sono esposti giocattoli a forma di genitali femminili accompagnati da slogan tipo: "Fuori sembra una bambina, ma dentro è una ragazza precoce".
Prodotti del genere non sono soggetti ad alcuna legge e ogni mese in Giappone se ne vendono diverse decine di migliaia. Quando si affronta l'argomento, molti uomini liquidano il fenomeno come limitato a "qualche pervertito" e negano di avere tendenze lolicon. Chi vende articoli per adulti, però, sa che non si tratta di un mercato di nicchia ma di un settore molto più vasto di quanto si pensi, alla portata di tutti e in rapida crescita. 'Se vuoi vendere molto fai indossare a una ragazza un cappellino giallo da scolara e una cartella. Devi solo evitare di rifletterci troppo', spiega un rappresentante di una grande casa di distribuzione video... Ad Akihabara (il quartiere di Tokyo paradiso dell'elettronica e di manga e anime) si vendono moltissimi prodotti lolicon e spesso si organizzano incontri tra le junior idol e i loro fan. Qui ogni settimana si allestiscono set fotografici con modelle bambine e incontri aperti al pubblico per la firma degli autografi. In un negozio vedo una idol di otto anni: 'Miao!Ho otto anni, sono solare e faccio la seconda elementare'. La bambina si mette in posa mentre gli uomini vanno a stringerle la mano e a farsi fotografare insieme a lei. Anche nei negozi delle grandi aziende di elettronica, come quelli di Sofmap, ogni settimana si fanno servizi fotografici con bambine delle scuole elementari e medie in costume da bagno.
Ho visto diversi video etichettati come prodotti junior idol. Le protagoniste si presentano come alunne dei primi anni delle elementari e parlano dei loro piatti preferiti. Naturalmente non dicono frasi né assumono atteggiamenti espliciti. Sono solo seguite dalle telecamere mentre mangiano il gelato, mentre si fanno la doccia, si insaponano o giocano in bikini mettendo in mostra il sedere...".

mercoledì 9 luglio 2014

Charles Péguy, il libertario cristiano precursore di papa Francesco



Articolo pubblicato sul quotidiano "Il Garantista" di mercoledì 9 luglio

Luciano Lanna

Colpisce il fatto che l’annuncio del regista Roman Polanski di realizzare un  film sull’affaire Dreyfus coincida con il centenario della morte di Charles Péguy, lo scrittore che più di altri aveva animato la prima storica battaglia garantista nell’opinione pubblica europea, la mobilitazione che segnò storicamente la nascita della figura dell’intellettuale. D’altronde, non solo l’affaire – scoppiato nel 1894, in seguito al presunto tradimento di  Alfred Dreyfus, un ufficiale di artiglieria ebreo alsaziano accusato di spionaggio a favore della Germania – aveva segnato il primo evento mediatico globale ma la mobilitazione degli scrittori e pensatori che ne seguì costituì la prova di forza di un’idea di cultura non più rinchiusa dentro le torri d’avorio dell’accademia.
Tanto è così che il ventiduenne Charles Péguy, classe 1873, precoce discepolo di Bergson e Rolland, socialista non dottrinario intrinsecamente abbeveratosi oltre che al cristianesimo di sua madre ai valori laici e rivoluzionari della Francia repubblicana, si schiera subito e senza esitazione, sulla scorta di un pamphlet garantista scritto dal suo grande amico Bernarde Lazar, L’affare Dreyfus. Un errore giudiziario. È la fase in cui, immediatamente e quasi spontaneamente, molti intellettuali, per esempio Octave Mirbeau, aderiscono alla campagna innocentista. L’episodio più famoso è quello dello scrittore Émile Zola che pubblicherà il 13 gennaio 1898 su l’Aurore la famosa lettera intitolata J’accuse! È forse difficile rappresentare oggi che cosa abbia significato l’affaire per la Francia all’alba del Novecento. Di errori giudiziari è infatti piena la storia, ma per un complesso di fattori storici e culturali, attorno a Dreyfus e a Estérhazy – che si scoprirà l’autore della lettera che sembrava incriminare il primo –  si polarizzarono allora le “due anime” contrapposte della Francia, la rivoluzionaria e la nazionalista, la libertaria e l’autoritaria, quella dei diritti dell’uomo e quella della “ragion di Stato”. Forse anche perché, come scrisse Péguy, erano le energie compresse da un lungo periodo di calma alle frontiere che esplodevano in quella tumultuosa guerra in tempo di pace. E Péguy si schierò con l’anima libertaria, garantista, socialista…
Anche per questo, quando il 5 gennaio 1900 Charles Péguy mandava in stampa il primo numero dei Cahiers de la Quinzaine (i “Quaderni quindicinali”) esordiva un’avventura davvero unica nella storia della cultura francese ed europea. Il giovane fondava la rivista in una camera da studente e solo l’anno seguente, nell’ottobre 1901, si installerà in via della Sorbona, in una bottega il cui arredamento consentirà al solo Georges Sorel di trovare una sedia mentre Péguy e il suo amministratore Bourgeois stavano al tavolo di lavoro. La storia della rivista durerà quattordici anni, con una sorte alterna, in mezzo a innumerevoli difficoltà, portando al suo fondatore la notorietà dei contemporanei che non andrà mai oltre il Quartiere Latino e l’ambiente dreyfusardo. Ma nonostante ciò, il giovane Péguy sarà redattore, autore ed editore di quella che da semplice pubblicazione d’ispirazione socialista e dreyfusarda diventerà nel corso degli anni una delle più importanti e anticipatrici riviste letterarie e filosofiche, tenuta in vita grazie a pochi affezionati lettori: Charles lasciò libera la sottoscrizione dell’abbonamento, e sui 1200 abbonati totali ben 800 lo erano senza versare alcunché.
Oltre allo stesso Péguy, che convoglierà tutta quanta la sua produzione letteraria e poetica nei Cahiers, collaboreranno al foglio Jean Juarés, Romain Rolland, i fratelli Tharaud e tanti altri. Ed è in questo clima che inizia, nel 1905, l’appassionato riavvicinamento di Péguy alla fede cattolica, “conversione” che tre anni più tardi annuncerà definitivamente agli amici Jacques Maritain e Joseph Lotte. Il suo si tramuterà allora nel destino di un intellettuale irregolare e isolato: la moglie, fedele ai valori laici e repubblicani non accetterà mai fino in fondo il suo percorso spirituale; la rivista è boicottata dal socialismo ufficiale e ortodosso; la borghesia è scettica e diffidente a prescindere. Nel 1910 esce l’opera che testimonia pubblicamente il suo cristianesimo, una riscrittura di un suo precedente dramma del 1897, Jeanne d’Arc, che chiamerà Il Mistero della Carità di Giovanna d’Arco, il capolavoro di Péguy, cui seguiranno negli anni successivi altri “misteri”, tra cui Il Portico del Mistero della seconda virtù del 1911 e Il Mistero dei Santi innocenti del 1912. Nel 1910 il suo saggio politico più amato e conosciuto: La nostra giovinezza, appassionata riflessione proprio sugli anni del caso Dreyfus. Del 1913, un altro saggio che resterà: Il denaro, dove, guardando soprattutto alla povertà crescente determinata dal mondo capitalistico, si poteva leggere: “Ai miei tempi tutti cantavano. Nella maggior parte dei luoghi di lavoro si cantava… Non c’era questo strangolamento economico di oggi, questo strangolamento scientifico, freddo, geometrico, regolare, netto, nitido, senza sbavature, implacabile…”.
Come dicevamo all’inizio, cento anni fa, il 5 settembre 1914, ad appena un anno dalla pubblicazione de Il denaro, Charles Péguy muore quarantenne sul fronte della Grande Guerra, per la quale era partito volontario, nel primo giorno della battaglia della Marna. Come un ossimoro vivente – patriota e libertario, cristiano e socialista, religioso e garantista – Péguy lasciava il suo invito a separare la prospettiva cristiana dal “disordine stabilito” del potere del denaro e della politica nazionalista e borghese. Quasi nessuno lo sottolinea, ma il nome di Péguy è caro alla tradizione proudhoniana nel momento stesso in cui è anche tra i pochi a venire presentato tra i “precursori” dell’intuizione di coniugare socialista e nazione nel saggio La dottrina del fascismo scritta da Mussolini e Gentile. E le sorprese non finiscono qui. Come mai Péguy che era stato tra i primi a mobilitarsi in nome del garantismo per l’innocenza di Alfred Dreyfus sarà anche uno degli autori più cari a Papa Luciani, Giovanni Paolo I, e a don Luigi Giussani? Ma come mai Péguy è stato rivendicato, nel tempo, da proudhoniani e fascisti, da cattolici ortodossi e socialisti riformisti magari soffermandosi solo su un tassello della sua personalità?

Per capire a fondo il “mistero Péguy” vale forse quanto scritto a suo tempo da padre Henri de Lubac: “Fu un profeta del Concilio Vaticano II: con un anticipo di 50 anni, tenne a battesimo l’ideale repubblicano, riappropriandosi della grande intuizione evangelica di Proudhon, Michelet e Quinet. E ciò che permane meno conosciuto e approfondito è il carattere libertario del suo cattolicesimo, cioè che egli rifiutò ogni assolutismo clericale della Chiesa, ogni organizzazione ecclesiale modellata sull’Ancien Régime”. E ancora: “Péguy, pur soffrendo sinceramente per non potersi accostare ai sacramenti, non era del tutto scontento di rimanere sulla soglia di una Chiesa che, sotto le spoglie di una società ecclesiastica, manifestava un autoritarismo che gli era visceralmente antipatico”. Non a caso, aggiungiamo noi, in una delle sue ultime frasi, a proposito della sua fede arrivò a definirsi “un figlio semi-ribelle completamente docile, dalla fedeltà sconfinata e dalla solidità senza eguali”. Quasi a dire un precursore della Chiesa di Papa Francesco, antitetico a qualsiasi visione di un cristianesimo in difensiva e in polemica col mondo. Annotava infatti Péguy: “Vi era il cattivo tempo anche sotto i romani. Ma Gesù non si tirò affatto indietro. Facendo il cristianesimo, egli non incriminò, egli non accusò nessuno. Egli salvò. Egli non incriminò il mondo. Egli salvò il mondo”.

giovedì 3 luglio 2014

Si chiamava Alex Langer e dubitava di avere ragione



Articolo pubblicato sul quotidiano "Il Garantista" giovedì 3 luglio

Luciano Lanna

Anche quest'anno, come ormai si fa dal 1997, è stato assegnato il Premio internazionale Alex Langer, con cui non solo si intende onorare e tenere vivo il ricordo di un intellettuale e un uomo politico scomparso prematuramente ma nel contempo viene presentato all’opinione pubblica il lavoro di persone anche sconosciute che – in piena sintonia con la visione langeriana – attraverso “scelte coraggiose, indipendenza di pensiero, forte radicamento sociale sono capaci di illuminare situazioni emblematiche e strade innovative”. 
Poco prima di congedarsi dall’esistenza, cosa che accadde il 3 luglio 1995, Alex aveva avuto modo di scrivere: “Riteniamo che sia tempo di affrontare anche dal basso la costruzione di una nuova fratellanza euro-mediterranea, e di accompagnare criticamente ed attivamente il processo che si svolge al livello delle istituzioni e dei governi…”. Un approccio alto alla politica che sembra davvero lontano in tempi di populismi demagogici e euroscetticismi egoisti e a buon mercato. Ma era un approccio maturato nel corso di tutta la sua vita. Nato a Vipiteno nel 1946 da un viennese di origine ebraica e da una madre altoatesina italiana e cattolica, Alex aveva sviluppato da subito robusti anticorpi contro ogni gabbia identitaria, tanto da sottrarsi all’obbligo di indicare una appartenenza al momento del censimento del 1991, scelta che gli precluse la strada alla candidatura che lo avrebbe potuto portare, con ragionevole possibilità, a diventare sindaco di Bolzano. E questa necessità dell’apertura, della contaminazione libertaria, del superamento dei recinti e delle gabbie, fu la vera costante nell’azione politica e culturale di Alex, e lo portò a essere sempre attivo nel tentativo di creare “ponti” anche nel momento in cui il disgregarsi della Jugoslavia si condensava drammaticamente nelle recrudescenze nazionaliste delle popolazioni balcaniche. Fu del resto in base a questa stessa sensibilità che a un certo punto prese radicalmente le distanze dalla visione identitaria e quasi etnica della politica che aveva caratterizzato gli anni ’70 e che riuscì a mettere in atto incursioni e attraversamenti nei campi contrapposti, forse impensabili ancora ai nostri giorni. Cattolico autodidatta, come amava definirsi, europeo con molte patrie, intellettuale che parlava cinque lingue e aveva cento vite, non smetteva mai di invitare i suoi interlocutori a “costruire ponti”.
 Come quando, nel 1985, dopo aver fondato le prime liste dei Verdi in Italia, si domandò pubblicamente: “Quanto sono verdi i conservatori, quanto conservatori i verdi?”. Tema a cui, più tardi, dedicherà un convegno, o come quando, nel 1987, firmerà un documento a sostegno a quello redatto dall’allora cardinale Joseph Ratzinger contro la ricerca sulle modificazioni genetiche (che provocò reazioni risentite all’interno della sinistra), arrivando a esprimere “soddisfazione per l’Istruzione vaticana sulla bio-etica, in quanto rifiuta ogni forma di manipolazione genetica (perché di questa si parla!) e riafferma il primato dell’etica sulle scienze e le sue applicazioni”.
 “Cara Rossanda, e se Ratzinger avesse ragione?”, scriverà proprio Alex Langer sul quotidiano comunista “il manifesto”. D’altronde, a lui che nel 1985 scelse di partecipare a una marcia per l’ambiente e contro il nucleare insieme ai francescani di Assisi, era chiaro che i Verdi, se si organizzavano come forza politica, non dovevano essere visti né pensarsi “come naturale e scontano prolungamento delle tradizionali battaglie e dei tradizionali schieramenti della sinistra, ma che piuttosto un polo di aggregazione, di ispirazione ideale e di iniziativa sostanzialmente trasversale rispetto alle polarizzazione consolidate”.
Formatosi nel clima del miglior ’68 libertario e abbeveratosi agli scritti di don Milani e Ivan Illich, Alex fu tra i fondatori di Lotta continua prima e fu l’ultimo direttore a firmare il giornale omonimo, negli stessi anni in cui il suo lavoro vero era insegnare filosofia in una scuola periferica di Roma, il XXIII Liceo scientifico, a fianco di quella via Acca Larenzia teatro della strage del 7 gennaio 1978, in cui la morte di tre giovanissimi missini provocò anche un processo di ripensamento in certi ambienti della estrema. E ci piace pensare che il professor Langer, che nel suo liceo era il più amato dagli studenti, anche da quelli cosiddetti di destra, possa aver contribuito a questo…

Del resto, più avanti negli anni, quando nella seconda metà degli Ottanta si riaprì il processo – e il dibattito a sinistra – sul caso Ramelli, altro giovane missino che era stato massacrato a Milano nel 1975 a colpi di chiave inglese, Langer insieme al suo amico Fiorello Cortiana accettarono di partecipare a un dibattito pubblico organizzato a Milano dal Fronte della Gioventù. Più avanti non ebbe problemi a partecipare attivamente a un convegno di quella che allora si chiamava la Nuova Destra. Non solo: nell’imminenza delle elezioni europee del 1989 propose a Mario Tonin, professore di fisica a Padova e appartenente a una nota famiglia veneziana di destra, di candidarsi nella testa della lista dei Verdi per il Parlamento di Strasburgo. Alex sottolineava sempre l’importanza di suscitare mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. Occorrono, diceva, “traditori della compattezza etnica, non transfughi”, pensando a nuove sintesi adeguate a tempi nuovi.
Tanto è vero che già all’inizio degli anni ’90 Langer cominciò a invocare lo scioglimento dei Verdi per determinare nuove sintesi in un processo coraggioso di “solve et coagula”, provocando più che altro la derisione dei suoi colleghi politici, non solo nell’europarlamento. Di quanto invece ci sarebbe bisogno ancora oggi di un Langer lo documenta un suo scritto del 1994, dove a differenza di quasi tutta la sinistra intellettuale, lui annotava coraggiosamente: 
“Berlusconi ha fatto venire allo scoperto una maggioranza che non ne può più di catastrofi avvenute o annunciate, e che vuole almeno un’iniezione di ottimismo per andare avanti”. E concludeva: “C’è spazio fra Savonarola e Berlusconi, purché si attivino le energie e le risorse che si situano tra il catastrofismo lamentoso e il sorriso prestampato e rassicurante del direttore dell’orchestrina del Titanic”. Un monito su cui si può, e si deve, ancora lavorare.