Mio articolo apparso oggi sulle pagine culturali del quotidiano "il Garantista"
Luciano
Lanna
Dovendo
scrivere di un –ismo ma collocandomi personalmente all’opposto di qualsiasi
ideologia (e quindi di qualsiasi –ismo) proverei a evocare l’orientamento che
secondo me corrisponde alla fuoriuscita da qualsiasi interpretazione ideologica
e che potremmo farlo coincidere, necessariamente, con quello “libertario”.
Preferisco ovviamente l’aggettivo in questione al sostantivo “libertarismo” che
di per sé potrebbe condurre a fare, magari inconsapevolmente, un’ideologia anche
della stessa opzione anti-ideologica. Non a caso, storicamente si è parlato di
libertarismo, nell’Ottocento, per l’anarchismo di Stirner, Bakunin e Kropotkin,
in cui a prevalere era una precisa e definita ideologia (“né Dio né Stato né
servi né padroni”) e la cui traduzione coincideva o nell’organizzazione (di per
sé una contraddizione in termini) di gruppi, gruppuscoli e progetti di
cospirazione o nel gesto violento dettato dall’esasperazione e dalla follia. E,
più avanti, nel Novecento, si è parlato sempre di libertarismo
(“libertarianism”), ma in termini astratti ed esclusivi di filosofia politica e
di costruzioni intellettuali, per alcune scuole di pensiero statunitensi
orientate verso l’antistatalismo e l’assunzione del mercato come criterio fondativo (e assoluto) delle
relazioni umane. Ma vale su questo quanto affermato da Daniel Cohn-Bendit: “Il
mio essere libertario definisce la mia scelta a favore della libertà ma, sia
chiaro, non quella delle multinazionali, per le quali continuo a chiedere
controlli e regole”. Sia ben chiaro: è indiscutibile che presupposti, pulsioni,
aspirazioni sia dell’anarchismo ottocentesco che del libertarianism americano siano a tutti gli effetti di matrice
libertaria e che molto di quanto da loro prodotto sia utile per l’elaborazione
di un background di riferimento per
il libertarismo postmoderno.
Ma è
comunque ovvio che l’orientamento libertario che stiamo cercando di delineare
(e che propone un nuovo e diverso libertarismo, adeguato al ventunesimo secolo)
fuoriesce completamente da qualsiasi prospettiva sistematica e ideologica e si
pone in termini esistenziali più che politologici. Si tratta più di una postura
esistenziale che di una sistemazione teorica. Da un punto di vista culturale,
ad esempio, esso infatti è anzitutto il portato di un attraversamento del
Novecento in direzione della libertà così come testimoniato da figure come
Albert Camus, Charles Péguy e
Simone Weil, Bruce Chatwin e Hannah Arendt. E alle quali si possono senz’altro
accostare anche autori come Ernst Jünger, Arthur Koestler, Ignazio Silone,
Bertrand Russell, André Malraux, George Orwell... Personalità del secolo scorso
che si sono contraddistinte per il fatto di aver “attraversato” integralmente e
criticamente il Novecento, essersi pure in molti casi inizialmente abbeverati
alle sue passioni incandescenti, ma che a un certo punto sono riuscite a
prendere le distanze da quelle tempeste a cui essi stessi avevano partecipato o
che addirittura avevano contribuito a mettere in campo. Jünger, ad esempio, lo
dimostrò arrivando a scrivere un romanzo-metafora contro la degenerazione
totalitaria di quel nazionalismo che lo aveva visto entusiasta da adolescente
come Sulle scogliere di marmo, partecipando al fallito putsch contro
Hitler e lavorando teoricamente, nel secondo dopoguerra, per un libertarismo
spiritualista. Allo stesso modo di Camus, Koestler, Silone, Malraux e Orwell,
che ribaltarono gli entusiasmi giovanili per il comunismo nel più coerente
impegno intellettuale libertario e antitotalitario. «L’importante per me resta il Singolo», spiegherà proprio Jünger, già ultracentenario, intervistato da Gnoli e Volpi ne I prossimi
titani (Adelphi). E proprio in nome del Singolo e contro il dilagare
di tutte le burocrazie autoritarie spersonalizzanti si espresse quasi tutta la
sua produzione a partire dall’apologo anti-totalitario del 1939 sino alla
sua teorizzazione della figura libertaria per antonomasia, l’anarca, nel romanzo Eumeswil del 1977.
Chiariamoci
subito. Quello che caratterizza la sensibilità libertaria cui facciamo
riferimento è innanzitutto il suo porsi ad di fuori e oltre qualsiasi logica di
“militanza”, di inquadramento, di aggregazione (nel senso etimologico di
formazione di un gregge). La singola persona,
per i libertari, è un valore in sé, la sua tensione esistenziale non può e non
deve mai essere annullata o strumentalizzata da logiche superiori, siano esse
la Ragion di Stato, la disciplina di partito, l’ortodossia ideologica. Si
tratta semmai di ribaltare esistenzialmente tutte le logiche del potere, quelle
logiche che connotano tutte le organizzazioni spersonalizzanti e che non
possono essere superate rovesciando politicamente la forma assunta dagli
assetti di potere vigenti ma impostando le proprie vite sul rifiuto di
esercitare e subire ogni forma di dominio e di potere. Vale quanto annota
Lucilio Santoni – uno dei più acuti intellettuali e poeti libertari italiani
contemporanei – nel suo libro Cristiani e
anarchici. Viaggio millenario nella Storia tradita verso un futuro possibile
(pp. 140, euro 12,00, edizioni Infinito): “Noi che viviamo ai margini dei
grandi giochi di potere abbiamo il dovere di tentare di capirci qualcosa,
abbiamo il compito di non essere superficiali nella lettura dei fatti e degli
accadimenti, soprattutto per evitare di essere usati come pedine”. Interessante
nel libro il percorso di autori che mettono in luce questo orientamento
libertario: ci sono, senz’altro, Proudhon e Malatesta, ma anche Tolstoj e Ivan
Illich, Pasolini e Bonhoeffer, Camus e Shelley, Leo Ferré e Garcia Lorca e – a
sorpresa – don Helder Camara, madre Teresa di Calcutta, monsignor Oscar Romero,
don Lorenzo Milani, don Luigi Giussani e papa Francesco… Nel suo essere non
ideologico e anti-ideologico l’orientamento libertario più autentico non ha
dogmi o punti fissi e non può infatti non essere aperto anche al contributo dei
cristiani, di chi – coerentemente, così come ha scritto il poeta Davide Rondoni
– “ha patroni in cielo, non padroni in terra. La religiosità, infatti, nel
momento stesso in cui riconosce un’autorità ne indica il limite e la radice
altrove che nella propria affermazione”.
Precisa ulteriormente Rondoni: “Il desiderio, benzina d’ogni avventura
di ricerca del senso, d’ogni avventura religiosa autentica, è anche la freccia
che attraversa e supera ogni realizzazione presunta di ciò che presume di
rispondergli e di soddisfarlo. La freccia che rompe gli idoli, ogni idolo del
potere. Dentro e fuori ogni organismo che per vivere si organizza anche in
forma di potere e di autorità”. E questa è un’ulteriore indicazione di una
sensibilità libertaria post-ideologica, in quanto tale aperta e mai chiusa in
una sistemazione intellettualistica. Non è un caso che, e non paradossalmente,
lo stesso Vittorio Messori, lo scrittore cattolico intervistatore di due Papi,
quando deve spiegare il suo orientamento politico-culturale a sorpresa ammette:
“Sono un libertario, naturalmente senza utopie o illusioni. Mi trovo a mio agio
in una open society, una società
aperta come la chiamava Karl R. Popper, questa società sempre più meticcia e
sempre più complessa. Amo la libertà annunciata dal Cristo e dal suo Vangelo da
proporre e mai da imporre... Mi piace la vita come avventura, dive santi e
mascalzoni si intersecano, dove si confrontano il bene e il male. Amo le
metropoli, le giungle d’asfalto, ben più del controllo sociale del villaggio,
amo il ribollire delle grandi città, dove la storia si costruisce attraverso la
trama infinita dei liberi rapporti umani…”.
La postura
esistenziale libertaria, insomma, non coincide con nessuna chiusura ideologica.
Il libertarismo post-militante e post-ideologico fuoriesce, alla luce di quello
che abbiamo detto, decisamente da qualsiasi identità culturale scontata e
vecchia, sia essa di derivazione laicista o illuminista. Così come la nuova
fenomenologia libertaria non si identifica affatto, come vorrebbe la pigrizia
del linguaggio da luogo comune, con l’indifferentismo etico, con un facile
permissivismo, con l’allontanamento da qualsiasi senso del limite umano ed
estetico. Piuttosto, la vera postura libertaria mette in campo un atteggiamento
esistenziale istintivamente refrattario a qualsiasi incasellamento, sfuggente a
qualsiasi chiusura o censura, caratterizzato da un’opzione contraria a
qualsiasi forma di autoritarismo, di razzismo, di militarismo, di
burocraticismo, di discriminazione…
Nell’emersione
storica di questa sensibilità libertaria post-ideologica ci sarebbe
l’intuizione che stava al centro di un bestseller
della cultura giovanile a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta e che,
apparso negli Stati Uniti nel 1974 e proposto in Italia nel 1981, si impose
improvvisamente col passaparola, senza nessuna sponsorizzazione mediatica: Lo Zen e l’arte della manutenzione della
motocicletta di Robert M. Pirsig. Nel quale si legge: “Non voglio più
entusiasmarmi per i grandi programmi di pianificazione sociale che coinvolgono
le vaste masse e che trascurano la qualità individuale. E penso che sia venuto
il momento di ricostituire questa
risorsa… Abbiamo davvero bisogno di riacquistare l’integrità individuale, la
fiducia in noi stessi e l’enthousiasmos…”.
D’altronde è un dato storico che negli
anni Sessanta, alla vigilia di quella contestazione studentesca di Berkeley che
anticipò il nostro Sessantotto, gli universitari statunitensi tenevano sul
comodino due livre de chevet: Sulla rivoluzione di Hannah Arendt
e L’uomo in rivolta di Albert Camus. In quel fermento
studentesco anglosassone, lontano dal marxismo-leninismo e da vecchie matrici
ideologiche e spinto soprattutto sul fronte dei diritti civili, della lotta
contro la segregazione razziale e del libertarismo, Camus, l’autore di romanzi
come Lo straniero e La peste, il premio Nobel nel
1957, veniva letto come uno scrittore “politico” tout court.
Una
sensibilità questa che, comunque, scaturisce da una lunga tradizione,
letteraria e non solo, che va da Walt Whitman a Henry David Thoreau e Ralph
Waldo Emerson, da Jack Kerouac e Allen Ginsberg a Gary Snyder e Lawrence
Ferlinghetti, da Louis-Ferdinand Céline a Henry Miller, da Leonard Cohen e Bob
Dylan a Georges Brassens agli italiani Giorgio Gaber, Fabrizio De André e
Francesco Guccini… Quello stesso Guccini che, definendosi libertario, ha sempre
rifiutato la definizione di cantautore politico: “Le mie canzoni sono
esistenziali – ha ammesso – e attraverso di esse ho cercato di raccontare il
mio punto di vista sul mondo. Ricordo ancora la polemica del dopoguerra sugli
intellettuali organici, quando Elio Vittorini dichiarò che non voleva fare il
pifferaio della rivoluzione…”.
Ecco su
questo punto, quello del rifiuto della logica dell’inquadramento e della
militanza, tutti i libertari sono naturalmente concordi. “Nel maggio del ’68 – ha ricordato lo scrittore
Jean-Pierre Chabrol – io rimproveravo a Georges Brassens ciò che chiamavo la
sua passività, il suo distacco. Cantautori e intellettuali facevano comizi e
barricate, si buttavano nella mischia. Lui restava a casa. Lui, che solo
facendosi vedere, avrebbe potuto diventare il profeta o il guru dei
sessantottini. Ma ciò che si proclamava alla Sorbona o nelle piazze in fondo
era già da molto tempo nelle sue strofe”. E lo
spiegherà bene lo stesso Brassens: “In realtà sono uno dei cantautori più
impegnati. Solo che normalmente si intende per impegno l’adesione a un partito
e si dà il caso che io non riconosco a nessun partito il diritto di avermi…”. E
non sarà un caso che Simone Weil, la filosofa libertaria, arriverà alle estreme
conseguenze e stilerà il Manifesto per la
soppressione dei partiti politici, ipotizzando una democrazia senza il
filtro di organizzazioni spersonalizzanti.
Così come Lucilio Santoni, da libertario e intellettuale impegnato,
scrive testualmente: “Io non amo la piazza, le manifestazioni e le
rivendicazioni..”. Un modo come un altro per dire che il libertario non abbocca
più all’amo, nessuno gliela dà a bere, nessuna prospettiva di potere riesce a
sedurlo o a ingannarlo, nessuno potrà mai aggregarlo in un progetto
eterodiretto, neanche quelli di una piccola politica alienante in mano ad
apprendisti stregoni cooptati, ambiziosi amministratori da condominio
catapultati ai piani alti del potere o piccoli tribuni della plebe. Il
libertario scende in campo, in quanto singola persona, solo quando sente che la
libertà è minacciata.
L’esempio migliore resta, a nostro
avviso, quello dell’impulso libertario di Camus, il quale non si è mai
crogiolato nella santificazione di un comodo individualismo narcisista. «Visto
che non viviamo più i tempi della rivoluzione – scrisse – impariamo a vivere il
tempo della rivolta». Anche per questo Massimo Fini ha annotato: «Il Sartre che
cercava di coniugare esistenzialismo e marxismo non ci finì mai di convincere. Albert
Camus, che ebbe la fortuna di morire presto, invece lo amammo sempre. Tutto…».
Lo confermava anche il filosofo Bernard-Henry Levy, ribadendo l’attualità del
suo libertarismo rispetto all’impegno ideologico organico alla politica: “Storicamente
Camus ha avuto ragione su Sartre. E non si dirà, non si ripeterà mai abbastanza,
quanto lui ebbe ragione”.