Annalisa Terranova
Non è brutto il film di Saul Dibb ispirato al romanzo incompiuto Suite francese. Non è brutto ma poteva essere migliore, con un più onesto finale aperto al posto di quello, scadente, che fa diventare la protagonista un'affiliata della Resistenza. Anziché preoccuparsi di mostrare allo spettatore quanto erano cattivi i tedeschi, bisognava forse preoccuparsi di mostrare l'essenza del capolavoro di Irene Nemirovsky, uccisa dai nazionalsocialisti ad Auschwitz nel 1942. E dove risiede quell'essenza? Nel raccontare la prova dell'umanità piegata dalla sciagura e dalla guerra, quel venir fuori negli uomini e nelle donne, nell'imminenza di un grave pericolo, del lato meschino o più eroico, quel loro farsi esempi di malvagio egoismo o di mirabile dedizione. E provare, ancora, a spiegare la contaminazione con il nemico nel villaggio di Bussy. Quella freddezza con cui vengono accolti al principio i tedeschi che si trasforma in tiepida, complice accoglienza nel riconoscere lo statuto umano che va oltre l'appartenenza a una terra e a una razza.
La celebrazione dell'essere umano fatta da Irene Nemirovsky è l'affronto letterario più grande che poteva essere fatto all'ideologia della razza, all'esasperazione dei nazionalismi. E all'affronto si aggiunge la sfida di raccontare l'amore tra Lucile, la francese e Bruno, l'ufficiale tedesco. Di mostrarne la bellezza e la purezza, oltre i pregiudizi e le convenzioni. L'archetipo dell'amore impossibile fornisce in letteratura il clima tragico e catartico più soddisfacente (basti pensare a Romeo e Giulietta) ma in questa coppia di Suite francese c'è il contesto della modernità a rendere più commovente la narrazione. Lui è un soldato qualunque, lei una qualunque borghese. Entrambi sono sposati ma non resistono, neanche razionalmente, all'emergere delle reciproche affinità elettive. Una comunione spirituale da cui non nascerà una passionale storia d'amore.
Si tratta di due individui che soccombono alle legge spietate di un destino che non li calcola e hanno appena il tempo di scambiarsi uno dei più brevi e intensi dialoghi d'amore. " 'Io la prego, in mia memoria, di aver cura per quanto possibile della sua vita'. 'Perché significa qualcosa per lei?', domandò lui ansiosamente. 'Sì perché significa qualcosa per me'. Si strinsero la mano, lentamente".
Ma un finale che coinvolgesse solo due esseri in preda al tumulto e alla sofferenza non poteva essere il giusto finale di un affresco come Suite francese: c'è quello spiare dei francesi dalle finestre il reggimento tedesco che se ne va verso la Russia, rimuginando sull'occupazione come esperienza che è prima di tutto umana (il piccolo tedesco che aveva imparato le canzoni francesi, il soldato che acquista in un negozio francese il bavaglino per il neonato che lo aspetta a casa, quell'altro che aiuta la donna francese a curare il marito), capace di determinare quello spazio di relazioni da dove scompaiono la morte e il sangue. I francesi guardano il nemico andare via e provano malinconia per quei ragazzi che forse finiranno sepolti sotto la neve della Siberia. Se ne vanno cantando un canto "lento e grave che si perdeva nella notte", un reggimento di ragazzi, di cui resta il ricordo di risate e battute.
Possiamo leggere la sorte di Lucile e di Bruno come quella di un'antitesi inconciliabile tra la paziente legge dell'alveare e l'urgenza delle libertà individuali, il diritto alla felicità anche quando un mondo va in rovina. L'ufficiale spiega alla donna francese in cosa consiste lo spirito tedesco: "La guerra è opera collettiva per eccellenza, noi tedeschi crediamo nello spirito comunitario, così come si dice che le api hanno lo spirito dell'alveare. Gli dobbiamo tutto: nutrimento, splendore, profumi, amori...". Lei vorrebbe opporre a tutto ciò una ribellione anarchica: "Odio questo spirito comunitario di cui ci riempiono le orecchie. Su una sola cosa tedeschi, francesi, gollisti la pensano tutti allo stesso modo: bisogna vivere, pensare, amare con gli altri, in funzione di uno Stato, di un paese, di un partito. Oh mio Dio, non voglio, sono una povera donna inutile ma voglio essere libera...". Ma tutto questo stridere di pensieri opposti non fa che produrre una fantasia, una celia, una speranza che dura il tempo di una bevuta, di una breve passeggiata nella campagna dorata di giugno, una dichiarazione d'amore: "Signora, dopo la guerra tornerò. Mi permetta di tornare. Tutti questi problemi tra Francia e Germania saranno vecchi... superati... per quindici anni almeno. Una sera suonerò alla porta. Lei mi aprirà e non mi riconoscerà, perché sarò in borghese. Allora dirò: 'Sono l'ufficiale tedesco ricorda? Adesso c'è la pace, la felicità, la libertà. La porto via con me. Venga, partiamo insieme' ".
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