giovedì 30 maggio 2013

Cantavamo “Dio è morto” e “Io vagabondo”: cinquant’anni con i Nomadi


Luciano Lanna

È ufficiale. Con il film-documentario L’ultima Thule, co-prodotto dalla moglie Raffaella Zuccari e in cui si racconta l’album che chiude la sua carriera discografica, Francesco Guccini dice addio al mondo dello spettacolo: «Non canto più in pubblico, per gli amici sì, magari dopo una cena...». E l’ultimo atto creativo il Guccio lo regala ai Nomadi, lo stesso gruppo che fece esordire i suoi testi e la sua musica: «Ho scritto una canzone per i loro cinquant’anni, si intitola proprio Nomadi e gioca un po’ sul significato letterale e sul nome della band. Ma non vado oltre, sarà Beppe Carletti a parlarne…».
Questo 2013 d’altronde è un anno di ripetuti e importanti cinquantenari per la musica pop. Non solo per i Beatles e i Rolling Stones che proprio nel 1963 registravano le loro prime incisioni ma anche per i nostri Nomadi che compiono in questi giorni cinquant’anni di vita e di avventura musicale. Il leader della band, Beppe Carletti, ha scelto per il compleanno Cesenatico, nel cui stadio dal 14 al 16 giugno si terrà una kermesse in puro stile Nomadi: con il gruppo in tre concerti, stand, mostre e quant’altro. D’altronde la storia dei Nomadi è iniziata proprio quando Beppe Carletti, a sedici anni, incontra Augusto Daolio, un coetaneo dagli occhiali neri che lavorava nel bancone del bar di famiglia e alla sera cantava, per gioco, a La Pineta. E fu ai tavoli di un altro bar che Beppe e Augusto decisero che avrebbero girato l’Italia con una loro band, I Nomadi. Augusto, la voce della band, è morto prematuramente nel settembre 1992, più di vent’anni fa, ma il gruppo c’è ancora, e anzi è la band più longeva della musica italiana, con alle spalle 300 canzoni e 35 album. Beppe racconta tutto questo, e molto altro, in un bel libro, Io vagabondo. 50 anni di vita con i Nomadi (Arcana, pp. 192, euro 17,50) utile anche per ripercorrere la storia degli ultimi decenni attraverso l’immaginario: “Fino a un istante prima era l’infanzia, poi, improvvisamente, diventammo adulti. Il 13 giugno del 1963 i Nomadi iniziarono la loro estate al Frankfurt Bar di Riccione e qualcosa dentro di noi cambiò per sempre…”.


Il vero e proprio debutto davanti al pubblico del gruppo in quanto tale fu il 22 novembre, la sera dell’omicidio del presidente JF Kennedy. Nel 1966, poi, finisce la fase da balera e inizia quella dell’impegno beat. “In quel momento storico – rievoca Carletti – nel nostro paese c’erano quasi sei milioni di ragazzi tra i quindici e i vent’anni, e il 1967 divenne l’anno con il massimo delle presenze sui banchi di scuola…”. In questo clima un amico, Dado Veroli, arriva a casa di Augusto, dicendo che doveva far ascoltare qualcosa di molto interessante: “Roba forte, ragazzi. Sono canzoni scritte da  un mio amico cantautore che vive a Bologna”. Il suo nome era Francesco Guccini e su quel nastro c’erano le versioni grezze di brani come Dio è morto, Noi non ci saremo, Per fare un uomo, Canzone per un’amica
La prima a venire registrata fu la più forte dal punto di vista emotivo: Dio è morto, che era stata scritta da Guccini nel 1965. Nel titolo si citava Friedrich Nietzsche e nell’attacco faceva il verso a Urlo di Allen Ginsberg, il poeta della beat generation: “Mi han detto / che questa mia generazione ormai non crede / in ciò che spesso han mascherato con la fede / nei miti eterni della patria e dell’eroe / perché è venuto ormai il momento di negare / tutto ciò che è falsità / le fedi fatte di abitudine e paura / una politica che è solo far carriera…”.  La canzone ebbe la strana ventura di venire censurata dalla Rai e trasmessa invece da Radio Vaticana. Pare che nemmeno i discografici all’inizio la volessero, proprio per quel titolo che nella primissima versione da far accettare all’Italia democristiana aveva un prudente punto interrogativo alla fine. I Nomadi, comunque, fecero la furbata di farsi fotografare mentre “regalavano” il disco a Paolo VI durante un’udienza del 1967. E, come racconta Roberta Beretta in Cantavamo Dio è morto (Piemme, 2008, pp. 220, euro 13,50), “di certo dal Sessantotto in poi quelle strofette furono eseguite a suon di chitarra più e più volte nelle chiese di tutt’Italia…”.


Lo attesta lo stesso Beppe Carletti: “I primi a cantare Dio è morto furono proprio i preti, e lo fecero suonare anche in chiesa”.  Diverso l’esito nel circuito della musica leggera, dove quell’anno i Nomadi portarono la canzone al Cantagiro: “Fu più di una sfida, fu un azzardo. La carovana partì da Catania il 21 giugno. Il testo d’altronde non lasciava spazio all’immaginazione e raccontava di una generazione che non credeva più ai ‘miti eterni della patria’ e nemmeno al ‘perbenismo interessato’ e a una ‘dignità fatta di vuoto’. Non riuscimmo a finire la prima strofa che iniziarono ad arrivare i sassi dal pubblico, conditi da qualche insulto. Per farla breve – prosegue Carletti – fummo costretti a mettere un sottotitolo al titolo del brano che diventò Dio è morto (se Dio muore è per tre giorni, poi risorge)…”.

Ma, come dicevamo, la canzone si impose invece tra i giovani tutti, laici e cattolici, di destra e di sinistra. Allo stesso modo in cui, cinque anni dopo, estate del 1972, si impose col solo passaparola Io vagabondo, anche questa poi diventata un must anche nelle parrocchie e nell’associazionismo cattolico di quegli anni: “Io vagabondo che son io / vagabondo che non sono altro /soldi in tasca non ne ho / ma lassù mi è rimasto Dio…”. Tre minuti e dieci secondi di emozioni – si legge in Dio, tu e le rose. Il tema religioso nella musica pop italiana (Il Margine, pp. 360, euro 18,00) di Brunetto Salvarani e Odoardo Semellini – per una pezzo che è diventato leggenda e inno generazionale, pur classificandosi, anche in questo caso, solo al tredicesimo posto al Disco per l’Estate. Il testo della canzone ribadiva la scelta on the road, della libertà esistenziale e spirituale, contrapponendola alle false sicurezze piccolo-borghesi e all’arrivismo come modello sociale. Ancora oggi, vent’anni dopo la scomparsa della voce di Augusto Daolio, ascoltarla e cantarla è senz’altro il modo migliore per restare fedeli allo spirito dei Nomadi e (forse) al meglio degli anni Sessanta e Settanta.


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